martedì 15 marzo 2011

Ecco qui il nuovo [S]tralci di vite!

Dopo un anno e passa di vita su blogspot, [S]tralci di vita cambia casa. Ci siamo trasferiti al nuovo dominio www.stralcidivite.it.

Non solo un nuovo dominio: un nuovo logo, una nuova veste grafica. Per il resto, la stessa passione di sempre.



Tra qualche giorno attivo il redirect al nuovo sito.

Cin cin!

domenica 13 marzo 2011

Ora tutto cambia (cit): il nuovo [S]tralci di vite!

Bene, bene, bene.

Se siete on line domani, vi aspetto!


giovedì 10 marzo 2011

Modi di dire o di fare: dimenticarsi (di avere) una bottiglia in cantina, tirargli il collo e scoprire che era buona

Dimenticare una bottiglia in cantina” è espressione molto comune nel gergo dei degustatori o degli appassionati di vino in genere; la si usa di frequente per invitare qualcuno a “lasciare di proposito” una bottiglia in cantina – e in questo sta l'uso (oserei dire) improprio del verbo "dimenticare" – per conservarla uno, due o più anni, nella convinzione (o nella speranza) che la bevuta possa regalare più forti emozioni a distanza di qualche tempo. In pratica, l'accezione del verbo "dimenticare" è per certi versi difforme dalle due in uso nella nostra lingua: -uno, perdere la memoria di una cosa o non ricordare; -due, passare sopra a qualcosa o non darle peso [fonte Conciso della Treccani]. 

Nel mio caso, parlando di questa falanghina millesimo 2007, l’espressione più adatta è "dimenticarsi di avere una bottiglia in cantina". Ché questa bottiglia - io - l'ho dimenticata davvero in cantina; e assolutamente non di proposito.

Ne avevo comprate giusto giusto due casse, un paio di anni fa, credo. Su internet, sul sito de La Compagnia del Cavatappi. Nemmeno per me, a dirla tutta; o almeno, inizialmente. Perché poi, visto il prezzo particolarmente vantaggioso, alle 6 che avevo comprato su richiesta di un amico, se ne erano aggiunte altre 6 per me. Niente di meglio nelle sere d’estate che un bel bianco da battaglia, da bere freddo a casa o con gli amici.

Delle 6 bottiglie che ho ricevuto comodamente a casa, 3 risultavano "disperse" in cantina fino a qualche giorno fa, quando le ho ritrovate. Non solo, a una gli ho tirato pure il collo (cit). 

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Villa Matilde è azienda affermata anche oltre i confini della Campania e produce circa 700mila bottiglie l'anno. Tra le diverse tenute di proprietà della famiglia Avallone ve n’è una nella mia provincia (che stando a quello che si legge sul sito internet si troverebbe tra Foglianise e Torrecuso): la Tenuta Rocca dei Leoni. Da qui arrivano due etichette di aglianico e, appunto, questa falanghina in purezza.

A distanza di tre anni il colore paglierino risulta particolarmente intenso e non mostra alcun segno di cedimento, nessuna ossidazione (e non che la reputi un difetto). Profumi eleganti e mediamente intensi, di una certa tipicità: le note di frutta, in primo piano; e, a seguire, i fiori bianchi e la salvia. Sorso secco che entra abbastanza morbido e si apre, poi, regalando più freschezza che sapidità. Poco meno che caldo (il grado alcolico si ferma ai 12 gradi e mezzo) e magari non lunghissimo come persistenza, ecco.

Una discreta boccia, insomma. Ché pianti, poi, il portafogli non ne ha fatti. Soprattutto, una bevuta significativa: un'ulteriore riprova, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che la falanghina è vitigno che ben può invecchiare. C'è soltanto bisogno di crederci. Tutti. Produttori, ristoratori e consumatori.

Crederci. A quello che vi ho raccontato.

mercoledì 2 marzo 2011

[S]tralci, il socio "misterioso" e i #contest sul vino...

Non è la prima volta che il mio socio ed io partecipiamo a dei #contest sul vino. Nel giugno scorso, infatti, il mio amico Alessio D'Alberto - ecco svelato il suo nome, cari amici di twitter presentò per "Esploratori del gusto", il concorso eno-gastronomico organizzato da Santa Margherita, una ricettina niente male che fu tra le 100 più votate in rete, pur non riuscendo - ahimé - a centrare la finalissima (date un'occhiata qui).

Ci riproviamo stavolta con la competition organizzata da Podere il Saliceto, in collaborazione con i blogger Andrea Petrini (Percorsi Di Vino) e Daniela Delogu (Senza Panna). Quello che occorre sapere per partecipare lo trovate qui e qui; per farla breve, si tratta di creare una ricettina ad hoc da abbinare a L'Albone, il blend di lambrusco salamino e sorbara prodotto dal simpaticissimo Gian Paolo Isabella.


Già che l'ho provato, quello di Gian Paolo - vi dico - è un lambrusco che mi piace. E poi - cosa da non sottovalutare - il prezzo è davvero poca roba rispetto alla qualità offerta. Ne avevo già parlato qui, nella rubrica Nord a Sud che curavo sul blog L'Arcante e ripropongo oggi, su queste paginette, lo [s]tralcio di quel post (si trattava de L'Albone 2009).
Gian Paolo Isabella lo trovi spesso su Vinix e a Vinitaly l’ho conosciuto di persona. Il suo lambrusco prende il nome dalla vigna che si estende lungo il vecchio argine del fiume che scorre a Campogalliano. La vinificazione contempla una macerazione pre-fermentativa a freddo per 3-4 giorni (al fine di ottenere una maggiore estrazione di colore e di tannini) e la fermentazione in autoclave. Blend di salamino di santa croce (70%) e sorbara (30%): del primo ha le caratteristiche note di frutta rossa dolce e di viola, del secondo la mineralità. Il risultato è un vino d’un violaceo piuttosto intenso e con una discreta componente alcolica (12.63%). In più lo mandi giù che è una bellezza per quanto è fresco. Lungo, naso/bocca spiccicati, persistente, con una piacevole trama tannica. Prezzo e numeri piccoli piccoli.
Ah, buona fortuna a chi parteciperà! In palio, per il miglior abbinamento, una cassetta da sei bottiglie di Argine, l’altro vino di Podere il Saliceto, prodotto da uve selezionate di malbo gentile, merlot e sangiovese.

giovedì 24 febbraio 2011

L'Aglianico del Taburno fa tappa nel milanese

Udite udite!

Se siete in zona Milano domani, venerdì 25 febbraio, potreste fare un salto a Bareggio. L'Enoteca Maggiolini, infatti, organizza - con il supporto della locale delegazione FISAR - un banco d'assaggio interamente dedicato all'aglianico.

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Le femminelle di aglianico nel Taburno
La cosa assolutamente interessante è che saranno in degustazione anche le etichette di aglianico del taburno delle aziende aderenti all'Associazione dei Produttori ("nata nel 2003 dall'impegno di un gruppo di produttori vitivinicoli, allo scopo di valorizzare e promuovere la conoscenza del territorio e della cultura dell'area del Taburno, ed in particolare dei vini a Denominazione di origine Controllata Aglianico del Taburno e Taburno") che il 10 dicembre scorso aveva organizzato l'interessante tavola rotonda Write Wine a cui avevo potuto partecipare anch'io (leggi qui).

"I campioni inviati per la degustazione - e in questo va riconosciuto il grande impegno da parte dell'Associazione dei Produttori - vanno dal 2001 al 2009 e provengono da 15 delle cantine associate dislocate nei diversi comuni dell’area così da permettere una visione più ampia di un prodotto che paga lo scotto di non essere un vino che ammalia al primo sorso ma che va conosciuto approfonditamente e aspettato per poterne apprezzare le qualità migliori: complessità, persistenza e finezza".

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Il logo dell'Associazione dei Produttori
Insomma, potreste approfittare per conoscere più da vicino  l'aglianico e, in particolare, l'aglianico del taburno che è vino sulle prime un po' scontroso ma che col tempo sa essere assai generoso.

Ve ne accorgerete.

Maggiori informazioni sul sito dell'associazione o scrivendo una mail; oppure ancora rivolgendosi direttamente all'Enoteca Maggiolini al nr. 02/9013034 - mail info@enoteca-maggiolini.it).

lunedì 21 febbraio 2011

Sagrantino di Montefalco Pagliaro 2005, Paolo Bea

Sarà forse il primo vino umbro che capita a tiro su queste paginette e devo dire che come debutto non è affatto male. Un giovanotto, quello sì. Che comunque il vino, in bottiglia, c'è finito il 23 settembre 2008. Poco più di due  anni, quindi: tutto sommato un discreto periodo di affinamento in vetro.

Discorsi anagrafici a parte, il Pagliaro ha fatto la sua bella figura. E anzi, trascorse un paio d'ore dalla stappatura, è venuto fuori alla grande, più giovane ancora di quanto avremmo soltanto osato immaginare poco prima.

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Il Pagliaro 2005, Sagrantino di Montefalco di Paolo Bea.

Piccoli frutti rossi e neri - la mora, soprattutto - e grande succosità. Una beva che unisce potenza e eleganza: potenza del tannino, vigoroso ma già ben levigato; eleganza dei profumi e del sorso, coerente e fresco assai, con quella bella punta di salinità che non guasta mai. Un finale in crescendo, vibrante; insomma, profondo e di grande soddisfazione finale.

Ha stoffa, ecco. E non lasciatevi spaventare dai 14 gradi e mezzo d'alcol dichiarati in etichetta ché, ve lo assicuro, non si sentono affatto. Piuttosto, accostatevi con umiltà alla boccia di un artigiano in quel di Montefalco che raccoglie le uve manualmente, le vinifica a contatto con le bucce (l'annata 2005 fa 46 giorni di fermentazione con macerazione) e fa maturare il vino per i primi dodici mesi in acciaio e poi altri 24 in botti grandi di rovere di Slavonia, prima dei dodici mesi di bottiglia che precedono la commercializzazione. Nessuna stabilizzazione forzata; questo è il motivo della presenza di più d'un sedimento sul fondo.


Pagliaro - lo dice l'etichetta - è il nome della vigna da cui provengono i grappoli di sagrantino utilizzati. Ho scoperto, poi, che il vigneto si trova a un'altitudine di circa 400 metri, su terreno argilloso, e che è composto di viti vecchie dai 20 anni in su. 

Costo in enoteca: sui 60 euro. Da comprare adesso e da bere chissà quando. Amen.

sabato 12 febbraio 2011

L'Amarone della Valpolicella secondo Speri: una verticale palpitante

Sono ritornato in Valpolicella l'altra sera, per partecipare alla verticale storica dell'Amarone Vigneto Sant'Urbano di Speri. Una verticale palpitante, oserei dire, che ha pienamente rispettato le attese, ripagandomi dei cento e passa chilometri che mi sono sparato fino a Pedemonte. 

Un evento a cui non potevo mancare, raccogliendo il graditissimo invito di Maria Grazia Melegari (date un'occhiata a Soavemente, il suo blog, oppure cercatela con questo stesso nome su twitter) e della delegazione AIS di Verona. Con un grazie sentito anche a Giampaolo Speri, padrone di casa e rappresentante dell'ennesima generazione di una famiglia dalle origini antiche, che ancora oggi produce vini di territorio e Amarone nel cuore della Valpolicella classica e secondo tradizione.

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Le bottiglie in verticale: (da sx a dx) 2006, 2001, 1995, 1983, 1973

Senza voler anticipare nulla - ché della verticale parlerò ben presto di là, sul sito di Luciano Pignataro - dico solo che la degustazione mi ha in un certo senso riappacificato con l'Amarone dopo alcune delusioni del passato (non ultima l'opinabile discesa in campo delle famiglie dell'Amarone d'Arte - tra cui appunto Speri). Tenuto conto che lo scarso feeling con la tipologia è anche da attribuirsi, nel mio caso, al non aver mai assaggiato niente di così vecchio da permettermi di coglierne forse l'essenza. Fatto è che l'Amarone è vino da lungo invecchiamento, spesse volte (purtroppo) snaturato dalle esigenze del mercato e da quello che Franco Ziliani aveva definito «processo di amaronizzazione forzata».

Una verticale tanto più importante se si pensa che l'excursus era di quelli tosti: 5 annate dagli anni settanta al 2000, passando per gli ottanta e i novanta con le rispettive tendenze enologiche. Una possibilità unica, quindi, per ripercorrere le tappe dell'evoluzione (anche stilistica) del vino simbolo della Valpolicella.

Con due annate, il 1973 e il 1995, a loro modo spet-ta-co-la-ri.

mercoledì 9 febbraio 2011

I bianchi (non Soave) di Sandro Tasoniero

Non so bene spiegarvi il perché ma - forse per quell'inconsapevole abitudine che mi porta ad abbinare il nome dell'azienda a quello della persona che il vino lo fa materialmente - ero convinto che l'uomo dinanzi a me facesse Sandro di nome e De Bruno di cognome. Invece no, si trattava di Sandro Tasoniero - ma questa è una cosa che ho scoperto solo dopo un po' di tempo. Dopotutto non conoscevo assolutamente i vini di quest'azienda che sapevo, però, essersi fatta promotrice di un VinixLive! (al quale - per la cronaca - non avevo potuto partecipare).

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Sandro Tasoniero
Primi assaggi in assoluto, dunque, che mi hanno fatto una buona impressione. Parlo esclusivamente dei bianchi (farei un discorso a parte per il passito e il recioto). Ché i rossi non li ho nemmeno provati, un po' per mancanza di tempo e un po' perché al banco d'assaggio sui vini del Veneto dove mi trovavo (ricordate?! ho parlato qui del seminario di approfondimento condotto da Massimo Zanichelli) avevo preferito misurare gli assaggi, concentrandomi maggiormente sui Soave in degustazione.

Ciò nonostante, i primi due bianchi di cui vi parlo non sono ottenuti da uve garganega.

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Il Durello 2008

l primo - il Monti Lessini Durello Superiore Durello 2008 - è ottenuto da uve durella in purezza ed è vinificato fermo (c'è anche una tipologia spumante di cui, però, non mi sono ancora fatto un'idea). Il naso intenso e piuttosto fine tradisce sin dal primo impatto una spiccata indole minerale. L'affinamento sur lies per un anno e la maturazione in botti di legno scariche (per il 15% della massa) donano ulteriore struttura. Il sorso è pieno e salino, teso e vibrante, molto giocato sulle durezze; discreto allungo finale.

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Il Calvarina 2007

E poi il Monti Lessini Bianco Superiore Calvarina 2007 - blend di chardonnay e pinot grigio (con una leggera prevalenza del primo) - che niente ha a che spartire col quasi omonimo cru di Soave. Colore paglierino di bella intensità e buona luminosità, dall'incedere lento degli archetti lungo le pareti del calice si direbbe dotato di maggiore ricchezza di estratto e componente alcolica. Al naso si concede con eleganti note di fiori bianchi, mela e lavanda; forse ancora scomposto in bocca, dove appunto prevalgono il salato, l'idrocarburico e l'alcol. Nel complesso, più profonda e complessa la beva, sempre salina e idrocarburica, in costante tensione e in divenire. Il che lascia ben sperare... Affinamento sur lies in legno per circa un anno, in botti da 5 ettolitri (lo chardonnay) e da 20 ettolitri (il pinot grigio).

giovedì 3 febbraio 2011

I grandi bianchi del Veneto: un bel seminario condotto da Massimo Zanichelli

Il 23 novembre scorso ho partecipato al banco d'assaggio sui vini del Veneto organizzato da GoWine; e, in particolare, a uno dei due seminari condotti dal giornalista Massimo Zanichelli che vedeva protagonisti i grandi bianchi della regione (all'incontro sui rossi, invece, non ci sono andato: un po' per mancanza di tempo e un po' per mancanza di voglia).

Il giornalista Massimo Zanichelli
Vero e proprio leit-motif della giornata, almeno per quanto mi riguarda, sono stati il Soave e i vini dei Colli Euganei; ho recuperato così l'assenza al banco d'assaggio del giorno precedente (organizzato da AIS Lombardia) sui vini di quest'ultima denominazione.

Vabbè, vi parlerò presto di tutto il resto (spero); per adesso, accontentatevi del seminario che ha offerto spunti assolutamente interessanti per gli amanti dei bianchi come il sottoscritto.

Prosecco Superiore Extra Dry Vigneti del Fol 2009, Bisol Desiderio
Di portamento elegante, come già dimostra la schiuma fine e persistente nel calice. I profumi, magari non  intensissimi ma assolutamente fini - quello sì, lasciano intendere un residuo zuccherino più che accennato: pera e mela renetta, soprattutto. In bocca, però, è meno dolce di quanto uno s'aspetterebbe, per di più abbastanza sapido (la zona di produzione è quella di Santo Stefano dove i terreni sono un misto di argille e arenarie); sorso ammiccante e di grande piacevolezza, chiusura su un ricordo leggero quasi fosse zucchero filato.


Il prosecco metodo classico e non dosato di Bellenda
Prosecco Pas Dosé SC 1931 Millesimato 2008, Bellenda
Un prosecco "anomalo" rispetto all'immaginario collettivo, elaborato secondo il metodo classico (sedici mesi sur lies), non dosato e pure millesimato. Colore paglierino, timido ma leggermente più intenso del precedente. I profumi danno l'idea di sensazioni più calde, in parte dovute al breve passaggio in legno durante la fermentazione e in parte alla leggera surmaturazione delle uve utilizzate. Di bella finezza: una nitida nota di mela, gli agrumi e la mentuccia. Nel complesso, una maggiore struttura rispetto a quello che è solitamente il prosecco, come è d'uso nella zona attorno a Vittorio Veneto più che nella Valdobbiadene (le vigne aziendali si trovano nella frazione Carpesica).

Il Soave Danieli di Fattori
Soave Danieli 2009, Fattori
Colpisce subito il naso, seducente ma non piacione; come pure il bel colore giallognolo. Profuma di mela e litchi, direi; erba appena tagliata. Ottenuto da uve garganega in purezza allevate nella zona di Roncà (sottozona Terrossa), ovvero nella parte più orientale della denominazione (quella allargata per intenderci, anch'essa di chiara origine vulcanica) dove si trovano soprattutto argille laviche. In bocca è molto ben definito, coerente e anche piuttosto lungo quanto a durata delle sensazioni; in più, è molto salino e costante nei profumi; caldi, quasi a suggerire una leggera surmaturazione delle uve.


Il cru di Soave di Pieropan
Soave Calvarino 2008, Pieropan
Il cru che da' il nome all'etichetta è forse il più importante dell'intera zona del Soave Classico. Composto per il 70% di uve garganega e del 30% di trebbiano, è il Soave di Soave per antonomasia: molto più minerale e iodato, più salino di quello precedente. Appena chiuso all'inizio, forse per una temperatura di servizio leggermente troppo bassa, ha netti profumi di mela, meno caldi del bianco di Fattori. Tutto giocato sulla mineralità, regala elegantissime sensazioni di agrumi e mentuccia, di bergamotto. Bianco di struttura, sei mesi sur lies in vasche di cemento vetrificato.

Il cru di vespaiolo dei Vignaioli Contra' Soarda
Breganze Vespaiolo Superiore Vignasilan 2007, Vignaioli Contra' Soarda
Un vitigno ai più sconosciuto, autoctono della zona di Breganze, a nord di Vicenza e dalla parte opposta rispetto ai Colli Berici, che si esprime nel calice con un naso particolarissimo di cenere, mela, susina e agrumi. La spinta minerale data dai terreni di origine vulcanica si percepisce già al naso e in bocca è più ricco, fruttato. Non c'è (anche se il primo impatto sembrava confermarlo) surmaturazione delle uve, esclusa  da Mirco Gottardi - se viene raccolto tardi perde la carica aromatica, acido e grasso in bocca. Piacevole e agrumato al palato, sosta sur lies che lo arricchisce quanto a corpo e struttura.


Il moscato fior d'arancio de Il Mottolo
Colli Euganei Fior d'Arancio Passito Vigna del Pozzo 2008, Il Mottolo
Al colore dorato di sinuosa eleganza, unisce un naso suadente, dove emergono con savoir faire il tipico sentore di arancia candita e a seguire l'uva passa, la lavanda e i fiori d'acacia, lo zenzero e il miele, avvolte da una nota smaltata. In bocca, poi, freschezza e sapidità sorreggono la beva che chiude leggermente amarognola. Da uve moscato giallo in purezza, raccolte con più passaggi in pianta e riposte in cassettine ad appassire per circa 4 mesi, pigiate con torchio a mano e poi sottoposte a maturazione per circa un anno in botte e quindi in acciaio.


Il vin santo di Ca' Rugate
Passito Corte Durlo 2003, Ca' Rugate
Delle due bottiglie aperte per la degustazione, una era praticamente andata e presentava il classico sentore di tappo. Peccato. Peccato perché - il buon vino, a volte, porta ad essere tremendamente egoisti - erano le uniche due che l'azienda aveva portato.
Il colore ramato farebbe pensare più a un vin santo, così come l'affascinante velo di ossidazione che avvolge il calice, donandogli ulteriori fascino ed eleganza. E in effetti vin santo è, eccome; di Brognoligo, però, che è la frazione più vitata di Monteforte d'Alpone. La floretta tipo Jura nel calice è dovuta all'ossigeno che si intrufola nelle botti scolme, sigillate e poi riaperte dopo lungo tempo (più o meno 6 anni) prima dell'assemblaggio. Profuma di mallo di noce e di caramello bruciato, radice di liquirizia e cacao amaro; unisce intensità ad eleganza, anche in bocca dove chiude lungo e con grande coerenza.

venerdì 28 gennaio 2011

Il Milocca di Nino Barraco: benedetta sciroccata!

Niente da fare, il vino è anche questione di culo (e perdonatemi il francesismo, ché non credo ci sia altra espressione più pregnante). Nel senso buono, s'intende. Perché certamente occorrono passione e competenze, rispetto e lavoro serio in vigna. Ma ci vuole anche fortuna, appunto: l'andamento climatico di un'annata non dipende dall'uomo.

Si rifletteva, così, agli sgoccioli di una serata. E si parlava dell'emozione di poter assaporare un vino così com'è, con i suoi pregi e i suoi difetti; di quanto incida l'imprevidibilità delle stagioni e di quanto sia bello poter cogliere le differenze tra le diverse annate di uno stesso vino, quando - invece - il mercato fatica spesso e volentieri ad accettarle, spingendo per l'omologazione.

Fortuna iuvat audaces, dicevano. E Nino ha avuto il merito di prendere la palla al balzo, vinificando ugualmente i grappoli di nero d'avola asciugati da un'inaspettata e forte sciroccata. Così è nato Milocca, vino da tavola rosso da uve stramature, come recita la contro-etichetta. Annata non riportata (2006) perché è appunto vino da tavola e non si può; ancor più che diversa da ogni altra: unica. Almeno fino ad oggi.

Milocca, il vino da tavola da uve stramature di Nino Barraco
Colore tra il rubino e il granato nel bicchiere, leggermente velato e nemmeno lontanamente limpido (non filtrato/non chiarificato, dice ancora la contro-etichetta). Profumi assolutamente caldi, eleganti e sempre ben riconducibili ai varietali del vitigno. Le olive in salamoia, per dire; poi il cappero, il gelso e i piccoli frutti neri, la liquirizia, il rabarbaro. Un particolarissimo sentore ematico, direi quasi ereticamente di ketchup.

Stupisce in bocca per come le stesse sensazioni nel bicchiere sappiano tornare e ritornare, con costanza. Gli manca un po' di freschezza, quello sì; che di sicuro aiuterebbe (e non poco) a reggere l'urto dei 16 gradi e passa dichiarati e del tannino. Sorso tra il dolce e il non dolce, rassicurante e al tempo stesso spavaldo.

In un parola: bello. Così è (se vi pare).

martedì 25 gennaio 2011

I due timorasso targati 2008 di Claudio Mariotto

Tra gli artigiani del timorasso non può non ricordarsi Claudio Mariotto, vignaiolo a Vho di Tortona. Non sono mai stato a trovarlo ma credo che lo farò presto; la sua azienda si trova lungo la stessa strada comunale dove sorge La Colombera di Piercarlo Semino e di sua figlia Elisa.

Conoscevo già entrambi i suoi vini da uve timorasso ma di recente ho potuto assaggiare quelli del millesimo 2008. Così, eccomi qua a parlarne ché il vitigno principe dei colli tortonesi è a me particolarmente caro e non ne faccio certo mistero.

Derthona 2008, il timorasso "base" di Claudio Mariotto
Il Derthona 2008 è d'un paglierino abbastanza acceso e scorre lento nel calice. Ha profumi intensi ed eleganti: pera e agrumi, nespola e fiori bianchi, gelsomino e una nota lievemente erbacea quasi fosse fieno. Sentori molto durevoli cui si aggiunge una bella vena idrocarburica; resinosa, direi. Entra vigoroso in bocca, con i suoi bei quattordici gradi; secco, certo. Potente e salino, come si conviene per un timorasso; spiccata la sua verve minerale che a tratti ricorda il gesso. Chiude lungo sulle note di frutta e di pietra focaia. Prodotto in diecimila bottiglie.

Pitasso 2008, il cru di timorasso di Claudio Mariotto 
Il Pitasso 2008, invece, ha un colore appena più lucente e giusto mezzo grado in più d'alcol. Profuma di pera e fiori di sambuco, erbette di montagna e agrumi. Ha una maggiore finezza rispetto al fratellino maggiore e anche il sorso è più ritmato. Le note minerali arrivano poco dopo la frutta, insieme alla punta eterea che però non infastidisce. Tutto l'impianto olfattivo è perfettamente rispondente alle sensazioni gustative. Persistenza lunga di pera, con una bella nota di pietra focaia a lasciare il ricordo netto, inconfondibile del timorasso.

Entrambi hanno freschezza (leggi mineralità) da vendere. Anche per questo non è difficile prevederne una certa evoluzione in bottiglia. Staremo a vedere.

venerdì 21 gennaio 2011

Extraomnes: la Blond e la Saison di Schigi

Di birre - ancora più che di vini - ne so veramente pochissimo. E non è falsa modestia. 

Se c'è una cosa che, però, mi è ben chiara è che mi piacciono. Non tutte, okkei; ma quelle di Extraomnes mi piacciono. Il segreto sta tutto nelle parole di Luigi "Schigi" D'Amelio, sommelier e birromane, da qualche tempo produttore in quel di Marnate, nel varesotto: «Facciamo le birre che piacciono a noi».

Luigi Schigi D'Amelio (a sinistra) e Lorenzo Dabove in arte Kuaska
Quelle che ho potuto assaggiare io (le altre spero di poterle provare direttamente in azienda) sono due birre con la stessa etichetta su cui è raffigurato un cane nero con una "collana" bianca quasi fosse di perle e un guinzaglio rosso, lo stesso colore degli occhi e della lingua spalancata. Cambia soltanto il colore dello sfondo: verde per la blond e giallo per la saison.

Delle due - dicevo - ho preferito la seconda (di cui però, mannaggia a me, non trovo più la foto): la saison. E cioè - grazie a Lorenzo Dabove, in arte Kuaska - una birra ad alta fermentazione non pastorizzata, rifermentata in bottiglia, tipica della Vallonia, regione di lingua francese del Belgio. Saison significa stagione, chiaro riferimento alle tempistiche di produzione, dal momento che questa birra veniva fermentata in autunno o in inverno e raccolta, poi, verso fine estate (e questo perché, non essendo ancora stata inventata la refrigerazione, i produttori belgi di birra erano costretti a fermentare con il freddo per evitare che la birra si deteriorasse con l'afa estiva).

La blond di Extraomnes
La saison di Extraomnes unisce le spezie ai fiori di sambuco, chiude sui toni vegetali e balsamici (non so ma io ci sentivo un profumo tipo broccoli) e ha un che di rugginoso, di metallico in genere. Fa sei-punto-nove di alcol. Il 10% di malto di segale utilizzato dona quella nota speziata - piccante, direi - sul finale.

L'altra - la blond -  è prodotta, invece, solo con malto chiaro, ha schiuma morbida e densa, profumi di agrumi e di fiori bianchi. D'alcol fa quattro-punto-quattro ed ha un gusto moderatamente amaro, dissetante.

Ah, la frase sul guinzaglio del cane che compare in etichetta è licet insanire. Lecito impazzire (per queste birre), che è poi anche l'emozione del post-assaggio.

mercoledì 19 gennaio 2011

Del Fiano di Avellino 2002 di Mastroberardino e dei bianchi che migliorano invecchiando

Date un'occhiata a questi tweets. A segnalarmeli è stata l'amica olandese Natasha Ter Haar aka @natashaterhaar (a proposito, avete dato un'occhiata al suo blog? Io l'ho conosciuta "live" allo scorso Salone del Gusto ed è una in gamba, ve lo assicuro!):
"Poured Soave at another tasting yesterday and again got a very positive response. Sadly the Fiano wasn't as well received (overall)".
"Versato un Soave a un'altra degustazione ieri e ricevuta ancora una risposta molto positiva. Purtroppo il Fiano non è stato accolto bene (complessivamente)".
E poi, alla richiesta del nome del fiano di avellino in questione:
"Mastroberardino Fiano 07. It was showing really well, in fact better than a year ago... most people just don't get it though".
"Mastroberardino Fiano 07. Si stava proponendo davvero bene, infatti meglio di un anno fa... (ma) la maggior parte delle persone non lo capiscono, però".
Così scriveva qualche giorno fa Tom Kisthart aka @kisthart, tuittero stanutinense che leggo essere sommelier e consulente per un importatore di vini della Florida.

A ben vedere, i due tweets la dicono lunga sull'idea generale che i vini bianchi non sappiano invecchiare. La cecità del consumatore medio è tale da portarlo (quasi) sempre a scegliere bianchi d'annata, ignorando il fatto che, invece, i grandi bianchi - e tra questi il fiano di avellino - migliorino con gli anni. Un costume che se da un lato ha costretto chi il vino lo vende a tavola ad operare scelte commerciali in sintonia con le preferenze della clientela, dall'altro è il risultato dell'incapacità stessa di una certa parte della ristorazione di proporre carte dei vini con una certa profondità anche alla voce bianchi.

Il fiano di avellino "Vintage" millesimo 2002 di Mastroberardino
Vallo a dire, poi, che proprio nel periodo natalizio appena trascorso ho (ri)bevuto questo fiano di avellino, che già avevo degustato con gli amici di #fianofordummies ad ottobre scorso (ricordate?!)...

Vallo a dire che la bottiglia in questione non è un rimasuglio di cantina ma un'etichetta comparsa sullo scaffale soltanto qualche mese fa, frutto di un ambizioso (e intelligente) progetto della storica azienda irpina Mastroberardino che ha inserito nel circuito dell'alta ristorazione, ad un prezzo contenuto, poche migliaia di bottiglie di fiano di avellino del millesimo 2002 (insieme al greco di tufo 2002 e all'aglianico 1998).

Tant'è che questo fiano, vinificato solo in acciaio e imbottigliato a novembre del 2003, ha retto per ben otto lunghi anni dopo la vendemmia. Colore dorato, reso ancor più affascinante da un velo di ossidazione. E poi profumi non intensissimi ma eleganti - quello sì; di bella complessità e, soprattutto, durevoli. Di frutta candita e fichi secchi, di miele e pompelmo, avvolti da una bella mineralità. Con il sorso che ancora beneficia di freschezza e sapidità; che chiude fresco, con una gradevole (magari non proprio lunghissima, per la verità) persistenza di pompelmo e frutta secca.

Vallo a dire, poi. Che è finito ma che era in ottima forma.

lunedì 17 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: "36+6" 2005 Aglianico del Taburno Riserva, Torre Varano

Un'addizione - quella suggerita dal nome - del periodo di invecchiamento in legno e di quello in bottiglia per l'affinamento, prima della commercializzazione, che testimonia chiaramente la sana ambizione della giovane azienda di Nicola D'Occhio.

A incidere, più che il lungo tempo trascorso nelle barriques, anche qui - seppure in misura minore, a mio avviso - il rovere americano; l'impostazione è, però, completamente diversa l'impostazione rispetto alla riserva di aglianico di cui ho scritto, sempre su queste paginette, qualche giorno fa.

"36+6" 2005, la riserva di aglianico del taburno di Torre Varano
C'è di buono che l'aglianico si esprime con buona tipicità; è evidente quel suo carattere austero, già anticipato dalla puntuale rispondenza tra il colore scuro del vino e i profumi dominanti di frutta cupa e spezie forti, avvolti da un anelito polveroso che non toglie, anzi aggiunge fascino.

Servirlo correttamente è quantomai necessario affinché i residui in bottiglia, derivanti dalla non filtrazione, non penalizzino l'aspetto puramente visivo. Gusto deciso, con la vigorosa aggressività del tannino che chiude amarognolo; tanto esuberante da non permettere al sorso di concedersi in pieno e riducendone così, pur  potendo contare su un cospicuo apporto di freschezza e su una vibrante punta sapida, le attuali potenzialità di beva.

venerdì 14 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: U’ Barone 2007 Aglianico del Taburno Riserva, Torre A Oriente

A dispetto del nome "maschile" - u' Barone, cioè il Barone - il naso ha una "femminile" eleganza che rivela una certa affinità caratteriale con Patrizia Iannella, agronoma e anima dell'azienda nonché Presidente dell'associazione dei produttori di aglianico del taburno.

Intessuto di note di frutta rossa e di spezie dolci, a tratti è un po' piacione; ma sempre fine, comunque. A volergli fare un appunto, ecco, le note conferite dal legno mascherano un po' la tipicità; colpa anche, a mio avviso, del rovere americano in cui matura il 30% della massa (per il quale confesso - in genere - di non nutrire grandissima considerazione).

U'Barone 2007, la riserva di aglianico del taburno di Torre a Oriente
Di assolutamente positivo c'è che il sorso è coerente con il bouquet dei profumi, puntuale nella stessa impronta dolciastra che avvolge il naso; il tannino, nemmeno troppo pungente, è ravvivato dalla freschezza e da una buona sapidità.

Nonostante un'idea generale di discreto equilibrio (tenuto conto della giovane età), la sensazione è quella di un vino non ancora compiuto, in cui le classiche note vanigliate finiscono per sovrastare il tutto. Abbisogna, a maggior ragione, di tempo.

mercoledì 12 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: Terra di Rivolta 2007 Aglianico del Taburno Riserva, Fattoria La Rivolta

A non averne conosciuto la provenienza, avrei forse pensato a un rosso borgognone (con le dovute proporzioni, certainement); e ciò anche se ho sempre odiato i paragoni e le frasi del tipo l'aglianico è il Barolo del Sud o cose del genere. Probabilmente per quel suo essere scostumato (cit.) al naso che gli dona ulteriore fascino e imprevedibilità.

Un'eleganza che, però, non diventa mai piatta compostezza; ché, anzi, il vino - parlo della trama olfattiva e gustativa insieme - ha una certa dinamicità. Profuma di frutta rossa scura, sa di funghi e di terriccio, ha tratti di selvatico e animale. Di tartufo, ecco. Non fosse per quella leggera riduzione al naso, che pur scompare pian pianino con il rimanere nel calice, sarebbe ancor più interessante.

Terra di Rivolta 2007, la riserva di aglianico del taburno di Fattoria La Rivolta

Il problema è che gli andrebbe dato il tempo di aprirsi. Nel calice, dico. Il che è cosa sinceramente molto difficile perché il sorso secco è di quelli che incitano alla beva, riuscendo nell'impresa di unire la vigoria all'agilità, in un quadro generale di ottima coerenza gusto-olfattiva. Non perde mai piacevolezza, con il tannino  - acceso, sì - ben imbrigliato da sapidità e acidità, quest'ultime a dare ulteriore snellezza al palato.

Non dimostra affatto i 14 gradi e mezzo d'alcol, pur essendo un vino non altrimenti definibile se non come robusto; soprattutto nel finale che è ricco e appagante, giocato sui toni della frutta scura e del sottobosco, con un sottile velo di balsamicità. Un anno e mezzo di affinamento in barriques nuove e più o meno lo stesso tempo in bottiglia, prima della commercializzazione. Appena settemila bottiglie.

lunedì 10 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: Lysios 2007 Aglianico del Taburno Riserva, Cantine Tora

Senza dubbio è stato l'assaggio più sorprendente della cena-degustazione con cui si è conclusa Write Wine, la manifestazione voluta dall'Associazione Aglianico del Taburno di cui ho già parlato su queste paginette e sul sito di Luciano Pignataro.

E non perché Francesco e Giampiero Rillo siano nuovi a vini di pregevole fattura e tutti di spiccato carattere (penso, tanto per fare un nome, alla vendemmia tardiva di falanghina Kissòs di cui parlò - e bene - il buon Pasquale Carlo) e territorialità; piuttosto perché Lysios - il significato letterale del termine greco è "bevanda che rende amici e che entra nell’anima" - è una riserva prodotta per il primo anno in assoluto dalla giovane azienda di Torrecuso, che rappresenta bene - se vogliamo - il paradigma dell'aglianico del taburno.

Lysios 2007, la Riserva di aglianico del taburno di Cantine Tora
Un vino, cioè, possente per via dei 14 gradi e mezzo d'alcol, ancora lontano dall'equilibrio che verrà soltanto con gli anni di affinamento in vetro. Un aglianico scontroso, sulle prime, che a parte la leggera confusione iniziale del bouquet dei profumi diventa via via più definito, regalando profumi eleganti di prugna e pepe nero, un'affascinante nota di torrefazione, poi ancora le spezie più dolci e un afflato balsamico. Convince un po' meno - ma, torno a ripetermi, è soltanto questione di tempo - in bocca, dove il sorso è pieno e chiude sul cacao amaro dopo una performance di bella intensità e durata. Con la persistenza che è solo leggermente "sporcata" dall'imponente nota alcolica e dalla fitta trama di tannini che perderanno esuberanza con gli anni, grazie anche all'ottimo corredo di freschezza e sapidità.

Da uve raccolte alla fine della prima decade di novembre, leggermente surmature, sottoposte a fermentazione in acciaio e poi affinate dapprima un anno in barriques nuove di media tostatura e poi un altro anno in acciaio, prima dell'imbottigliamento senza filtrazioni stressanti. Soltanto tremila bottiglie.

venerdì 7 gennaio 2011

Greco di Tufo 2009, Cantine dell'Angelo. E di come, a volte, si possa cambiare idea

Due piccioni con una fava, si dice. O due cantine con un enologo, potrei dire io. La puntatina in quel di Tufo non era in programma, infatti; ma non potevo certo farmi sfuggire l'occasione. E così quando Luigi Sarno mi ha chiesto fammi compagnia, dopo uno spezzone di pomeriggio in visita da lui a Cantina del Barone (della visita con annessa verticale ho parlato di là, sul sito di Luciano Pignataro), ho detto sì, vengo senza pensarci e mi sono infilato in auto. E il paio d'ore che avevo pensato di dedicare a quella grande passione che è per me il vino sono diventate, come spesso accade, un intero pomeriggio.

Dopotutto, da Cesinali a Tufo ci si impiega più o meno una mezzoretta. E poi il desiderio e la curiosità di riassaggiare il greco di tufo prodotto da Angelo Muto erano tali che mi sono detto ma sì, dai; soprattutto perché il millesimo 2008, assaggiato tanto velocemente quanto superficialmente, non l'avevo capito. E quale migliore occasione, dunque, di riprovarci direttamente in azienda, a tu per tu con il produttore.

Ho davvero apprezzato l'entusiasmo con cui mi ha accolto Angelo Muto, giovane grande e grosso, che pur stanco per la vendemmia appena conclusa e nonostante la giornata ormai volgesse al termine, mi ha accompagnato in giro per tutti i vigneti: Campanaro, Serrone e Castellone; soltanto da lontano, Torre Favalle, il vigneto impiantato due anni fa che diventerà forse il cru dell'azienda. Tutti appezzamenti sparsi per il territorio del comune di Tufo e che fanno appena 5 ettari: «l'estrema frammentazione della proprietà è uno dei grossi problemi per la nostra viticoltura». Con l'occasione, passando in località San Paolo, ho anche salutato Gabriella Ferrara e suo marito Sergio Ambrosino, anime dell'azienda Benito Ferrara, dove ero stato in visita qualche tempo fa (avevo parlato qui del loro "Vigna Cicogna" 2008), a dimostrazione della maturità di Angelo, consapevole come non molti altri che per uscire fuori dall'anonimato o quasi in cui versa, commercialmente, il greco di tufo bisogna promuovere il territorio innanzitutto e non, come "campanilisticamente" spesso accade, il singolo. 

Greco di Tufo 2009, Cantine dell'Angelo
Nonostante l'azienda abbia debuttato sul mercato soltanto nel 2006, Angelo rappresenta la terza generazione di viticoltori. La produzione attuale è una sciocchezza, occhio e croce quindicimila bottiglie, ottenute esclusivamente con le uve provenienti dai vigneti di proprietà, alcuni dei quali si trovano proprio sopra alle vecchie miniere di zolfo (di qui la spiccata mineralità del vino nel bicchiere). Solo acciaio per la vinificazione.

Il millesimo 2009 mi ha fulminato. D'un paglierino di tenue intensità e di bella luminosità che nel calice scorre nemmeno troppo facilmente, a dare i primi indizi di una certa struttura. La mineralità che si percepisce già al naso viene fuori soprattutto in bocca e si concede per quella che è veramente, cioè marchio a fuoco del terroir e delle sue vigne. Ecco, magari non intensissimo l'impatto al naso ma per il resto ha tutto quel che occorre: ritmo ed eleganza, in primis. Profuma di scorzette d'agrumi, di ribes e di lampone; ma la cosa che più mi piace è l'allungo salino sul finale, in pratica una lama che taglia in due il palato, gli da' sollievo e poi lo tormenta, fino al finale appena terroso e di frutta sulla scia di quella spiccata sapidità.

Un greco di tufo pulito che dirà ancor più la sua di qui a qualche anno. Un vino che è quanto di meglio si possa chiedere a tavola. Mi ha fatto ricredere; e d'altronde solo gli stupidi non cambiano mai idea.

Ah, dimenticavo. Menzione speciale per il bel sito internet: ben fatto, user-friendly e, udite udite, anche aggiornato. Che non è affatto cosa scontata, ahimè, dalle mie parti.

mercoledì 5 gennaio 2011

Sassicaia 2003: e dov'è il millesimo difficile?

Fare di tutta l'erba un fascio è pericolo sempre dietro l'angolo, specie quando ci si imbatte in bottiglie di annate cosiddette sfortunate come è stata, un po' in tutto lo Stivale, la 2003. Annata calda - troppo, forse - che spesso e volentieri ha partorito vini carichi e precocemente maturi, con acidità e freschezza anche di molto sotto l'asticella della normalità. I rossi, in particolare, si sono visti gambizzare in termini di potenzialità evolutive e aspirazioni d'invecchiamento. Apro e chiudo parentesi: menomale che la moda dei vini iperconcentrati e marmellatosi ha fatto capolino (o quasi) già da un po'!, chissà quali sensazioni ci avrebbero regalato alcuni vinoni figli di un millesimo così...

Se da un lato il Sassicaia che ho bevuto io nulla aveva del vino "seduto", dall'altro c'era il rischio, in questo caso maggiore, che il costo spropositato della bottiglia diventasse il pretesto per abbandonarsi a critiche superficiali e ingenerose; soprattutto nel particolare momento che stiamo vivendo, in cui certi vitigni - vedi cabernet franc cabernet sauvignon (giusto per citare quelli che poi vanno a comporre l'uvaggio del taglio tosco-bordolese di Tenuta San Guido) - sono demonizzati, talvolta a prescindere. E sì che sono anch'io tra quelli che non credono alla storiella del vitigno internazionale migliorativo (vi dice niente Cirò!?); ma è innegabile che certi vini, anche italiani, prodotti con vitigni alloctoni sono di assoluto livello qualitativo (come non ricordare, per esempio, il cabernet sauvignon di Eugenio Rosi? Ne ho parlato qui).

Sassicaia 2003, Tenuta San Guido
Pur non essendo uno di quei vini per cui stravedo, forse anche perché soltanto una volta, prima di questa, avevo avuto modo di tirargli il collo (in un'insolita sfida con l'Ornellaia dello stesso millesimo 1998 che ho raccontato qui), non posso certo non riconoscere sia una boccia che valga la pena assaggiare almeno una volta nella propria vita. Vino dal colore rosso intenso con tratti di una certa lucentezza, tutto fuorché "cotto". Anzi, perfettamente integro: sia nell'aspetto, appunto, che nelle sensazioni olfattive e gustative.

In pratica, l'eccezione - nemmeno tanto emblematica, a dirla tutta - che conferma la regola: e, cioè, che nelle annate "sfortunate", chi ha seminato bene in vigna ha potuto raccogliere un prodotto di livello, magari in minore quantità e con più sacrificio. Prova ne sono i profumi di bella complessità che ricordano l'amarena, l'anice, la grafite e il sottobosco, finanche qualche tocco di mineralità che ritorna anche al palato, regalando un sorso intenso e definito, rotondo ma non piatto grazie a una buona freschezza di fondo che gli permette di conservare verve e agilità. Tannino setoso, ben levigato; con un finale, magari non particolarmente lunghissimo, in cui si intrecciano la china e il terriccio, via via più intensi man mano che scompare la frutta rossa.

Dedicato a chi snobba i vini del 2003 solo perché hanno quella targa. Con un grazie grosso così, dopo che l'ho bevuta a Natale, perché è stato soprattutto grazie a loro che l'ho comprata nel 2005, in un'enoteca on line di tutto rispetto, per "soli" 85 eurini. Un affare, no!?

lunedì 3 gennaio 2011

Barolo Chinato: Augusto Cappellano e una storia lunga più di cent'anni

Avevo le idee chiare quando l'ho comprato un mese e mezzo fa a Terre di Vite (leggi qui). Direttamente dalle mani del simpaticissimo Augusto, figlio del compianto Baldo Cappellano e oggi impegnato a tutto tondo nella conduzione della storica azienda di famiglia, in quel di Serralunga d'Alba.

Sapevo già quando, come e perché l'avrei bevuto. In pratica, di lì in poi è stato tutto un countdown fino allo scoccare dell'ora ics: il pranzo di Natale. O meglio, a fine pasto, quando il panettone era già bello che scomparso dalla tavola e si era materializzato il solito vassoietto con i dolci della tradizione campana: il divinamore, il roccocò e poi lui, quel dolce semplice e spettacolare che è il mustacciuolo ricoperto di cioccolato fondente.

Il Barolo Chinato di Cappellano
Un vino che ha una storia lunga più d'un secolo, da quando sul finire del 1800 il farmacista Giuseppe Cappellano mise a punto la ricetta del mitico elisir di Langa; e due anime, quella dolce e quella amara, che convivono, si intrecciano, si scontrano e si completano nel bicchiere dove - di là dall'affascinante colore granato di un barolo di vecchia data, appena appena forse più lucente - promanano e si alternano profumi intensi di spezie: la vaniglia, il rabarbaro, la china e i chiodi di garofano, lo zafferano e l'origano.

Il naso è stratosferico; ma è in bocca che le cose si fanno ancor più stupefacenti se si pensa che il sorso - che pur deve fare i conti coi diciotto e passa gradi d'alcol - non perde mai leggiadria e non è mai pesante, ecco. Eppoi è elegantissimo, d'una finezza che è compostezza, pulizia e austerità. Che sono poi i tratti essenziali del lungo ricordo che si stampa sul palato, con la radice di liquirizia che si affaccia man mano che svaniscono le spezie.

Insomma, un must.