venerdì 28 gennaio 2011

Il Milocca di Nino Barraco: benedetta sciroccata!

Niente da fare, il vino è anche questione di culo (e perdonatemi il francesismo, ché non credo ci sia altra espressione più pregnante). Nel senso buono, s'intende. Perché certamente occorrono passione e competenze, rispetto e lavoro serio in vigna. Ma ci vuole anche fortuna, appunto: l'andamento climatico di un'annata non dipende dall'uomo.

Si rifletteva, così, agli sgoccioli di una serata. E si parlava dell'emozione di poter assaporare un vino così com'è, con i suoi pregi e i suoi difetti; di quanto incida l'imprevidibilità delle stagioni e di quanto sia bello poter cogliere le differenze tra le diverse annate di uno stesso vino, quando - invece - il mercato fatica spesso e volentieri ad accettarle, spingendo per l'omologazione.

Fortuna iuvat audaces, dicevano. E Nino ha avuto il merito di prendere la palla al balzo, vinificando ugualmente i grappoli di nero d'avola asciugati da un'inaspettata e forte sciroccata. Così è nato Milocca, vino da tavola rosso da uve stramature, come recita la contro-etichetta. Annata non riportata (2006) perché è appunto vino da tavola e non si può; ancor più che diversa da ogni altra: unica. Almeno fino ad oggi.

Milocca, il vino da tavola da uve stramature di Nino Barraco
Colore tra il rubino e il granato nel bicchiere, leggermente velato e nemmeno lontanamente limpido (non filtrato/non chiarificato, dice ancora la contro-etichetta). Profumi assolutamente caldi, eleganti e sempre ben riconducibili ai varietali del vitigno. Le olive in salamoia, per dire; poi il cappero, il gelso e i piccoli frutti neri, la liquirizia, il rabarbaro. Un particolarissimo sentore ematico, direi quasi ereticamente di ketchup.

Stupisce in bocca per come le stesse sensazioni nel bicchiere sappiano tornare e ritornare, con costanza. Gli manca un po' di freschezza, quello sì; che di sicuro aiuterebbe (e non poco) a reggere l'urto dei 16 gradi e passa dichiarati e del tannino. Sorso tra il dolce e il non dolce, rassicurante e al tempo stesso spavaldo.

In un parola: bello. Così è (se vi pare).

martedì 25 gennaio 2011

I due timorasso targati 2008 di Claudio Mariotto

Tra gli artigiani del timorasso non può non ricordarsi Claudio Mariotto, vignaiolo a Vho di Tortona. Non sono mai stato a trovarlo ma credo che lo farò presto; la sua azienda si trova lungo la stessa strada comunale dove sorge La Colombera di Piercarlo Semino e di sua figlia Elisa.

Conoscevo già entrambi i suoi vini da uve timorasso ma di recente ho potuto assaggiare quelli del millesimo 2008. Così, eccomi qua a parlarne ché il vitigno principe dei colli tortonesi è a me particolarmente caro e non ne faccio certo mistero.

Derthona 2008, il timorasso "base" di Claudio Mariotto
Il Derthona 2008 è d'un paglierino abbastanza acceso e scorre lento nel calice. Ha profumi intensi ed eleganti: pera e agrumi, nespola e fiori bianchi, gelsomino e una nota lievemente erbacea quasi fosse fieno. Sentori molto durevoli cui si aggiunge una bella vena idrocarburica; resinosa, direi. Entra vigoroso in bocca, con i suoi bei quattordici gradi; secco, certo. Potente e salino, come si conviene per un timorasso; spiccata la sua verve minerale che a tratti ricorda il gesso. Chiude lungo sulle note di frutta e di pietra focaia. Prodotto in diecimila bottiglie.

Pitasso 2008, il cru di timorasso di Claudio Mariotto 
Il Pitasso 2008, invece, ha un colore appena più lucente e giusto mezzo grado in più d'alcol. Profuma di pera e fiori di sambuco, erbette di montagna e agrumi. Ha una maggiore finezza rispetto al fratellino maggiore e anche il sorso è più ritmato. Le note minerali arrivano poco dopo la frutta, insieme alla punta eterea che però non infastidisce. Tutto l'impianto olfattivo è perfettamente rispondente alle sensazioni gustative. Persistenza lunga di pera, con una bella nota di pietra focaia a lasciare il ricordo netto, inconfondibile del timorasso.

Entrambi hanno freschezza (leggi mineralità) da vendere. Anche per questo non è difficile prevederne una certa evoluzione in bottiglia. Staremo a vedere.

venerdì 21 gennaio 2011

Extraomnes: la Blond e la Saison di Schigi

Di birre - ancora più che di vini - ne so veramente pochissimo. E non è falsa modestia. 

Se c'è una cosa che, però, mi è ben chiara è che mi piacciono. Non tutte, okkei; ma quelle di Extraomnes mi piacciono. Il segreto sta tutto nelle parole di Luigi "Schigi" D'Amelio, sommelier e birromane, da qualche tempo produttore in quel di Marnate, nel varesotto: «Facciamo le birre che piacciono a noi».

Luigi Schigi D'Amelio (a sinistra) e Lorenzo Dabove in arte Kuaska
Quelle che ho potuto assaggiare io (le altre spero di poterle provare direttamente in azienda) sono due birre con la stessa etichetta su cui è raffigurato un cane nero con una "collana" bianca quasi fosse di perle e un guinzaglio rosso, lo stesso colore degli occhi e della lingua spalancata. Cambia soltanto il colore dello sfondo: verde per la blond e giallo per la saison.

Delle due - dicevo - ho preferito la seconda (di cui però, mannaggia a me, non trovo più la foto): la saison. E cioè - grazie a Lorenzo Dabove, in arte Kuaska - una birra ad alta fermentazione non pastorizzata, rifermentata in bottiglia, tipica della Vallonia, regione di lingua francese del Belgio. Saison significa stagione, chiaro riferimento alle tempistiche di produzione, dal momento che questa birra veniva fermentata in autunno o in inverno e raccolta, poi, verso fine estate (e questo perché, non essendo ancora stata inventata la refrigerazione, i produttori belgi di birra erano costretti a fermentare con il freddo per evitare che la birra si deteriorasse con l'afa estiva).

La blond di Extraomnes
La saison di Extraomnes unisce le spezie ai fiori di sambuco, chiude sui toni vegetali e balsamici (non so ma io ci sentivo un profumo tipo broccoli) e ha un che di rugginoso, di metallico in genere. Fa sei-punto-nove di alcol. Il 10% di malto di segale utilizzato dona quella nota speziata - piccante, direi - sul finale.

L'altra - la blond -  è prodotta, invece, solo con malto chiaro, ha schiuma morbida e densa, profumi di agrumi e di fiori bianchi. D'alcol fa quattro-punto-quattro ed ha un gusto moderatamente amaro, dissetante.

Ah, la frase sul guinzaglio del cane che compare in etichetta è licet insanire. Lecito impazzire (per queste birre), che è poi anche l'emozione del post-assaggio.

mercoledì 19 gennaio 2011

Del Fiano di Avellino 2002 di Mastroberardino e dei bianchi che migliorano invecchiando

Date un'occhiata a questi tweets. A segnalarmeli è stata l'amica olandese Natasha Ter Haar aka @natashaterhaar (a proposito, avete dato un'occhiata al suo blog? Io l'ho conosciuta "live" allo scorso Salone del Gusto ed è una in gamba, ve lo assicuro!):
"Poured Soave at another tasting yesterday and again got a very positive response. Sadly the Fiano wasn't as well received (overall)".
"Versato un Soave a un'altra degustazione ieri e ricevuta ancora una risposta molto positiva. Purtroppo il Fiano non è stato accolto bene (complessivamente)".
E poi, alla richiesta del nome del fiano di avellino in questione:
"Mastroberardino Fiano 07. It was showing really well, in fact better than a year ago... most people just don't get it though".
"Mastroberardino Fiano 07. Si stava proponendo davvero bene, infatti meglio di un anno fa... (ma) la maggior parte delle persone non lo capiscono, però".
Così scriveva qualche giorno fa Tom Kisthart aka @kisthart, tuittero stanutinense che leggo essere sommelier e consulente per un importatore di vini della Florida.

A ben vedere, i due tweets la dicono lunga sull'idea generale che i vini bianchi non sappiano invecchiare. La cecità del consumatore medio è tale da portarlo (quasi) sempre a scegliere bianchi d'annata, ignorando il fatto che, invece, i grandi bianchi - e tra questi il fiano di avellino - migliorino con gli anni. Un costume che se da un lato ha costretto chi il vino lo vende a tavola ad operare scelte commerciali in sintonia con le preferenze della clientela, dall'altro è il risultato dell'incapacità stessa di una certa parte della ristorazione di proporre carte dei vini con una certa profondità anche alla voce bianchi.

Il fiano di avellino "Vintage" millesimo 2002 di Mastroberardino
Vallo a dire, poi, che proprio nel periodo natalizio appena trascorso ho (ri)bevuto questo fiano di avellino, che già avevo degustato con gli amici di #fianofordummies ad ottobre scorso (ricordate?!)...

Vallo a dire che la bottiglia in questione non è un rimasuglio di cantina ma un'etichetta comparsa sullo scaffale soltanto qualche mese fa, frutto di un ambizioso (e intelligente) progetto della storica azienda irpina Mastroberardino che ha inserito nel circuito dell'alta ristorazione, ad un prezzo contenuto, poche migliaia di bottiglie di fiano di avellino del millesimo 2002 (insieme al greco di tufo 2002 e all'aglianico 1998).

Tant'è che questo fiano, vinificato solo in acciaio e imbottigliato a novembre del 2003, ha retto per ben otto lunghi anni dopo la vendemmia. Colore dorato, reso ancor più affascinante da un velo di ossidazione. E poi profumi non intensissimi ma eleganti - quello sì; di bella complessità e, soprattutto, durevoli. Di frutta candita e fichi secchi, di miele e pompelmo, avvolti da una bella mineralità. Con il sorso che ancora beneficia di freschezza e sapidità; che chiude fresco, con una gradevole (magari non proprio lunghissima, per la verità) persistenza di pompelmo e frutta secca.

Vallo a dire, poi. Che è finito ma che era in ottima forma.

lunedì 17 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: "36+6" 2005 Aglianico del Taburno Riserva, Torre Varano

Un'addizione - quella suggerita dal nome - del periodo di invecchiamento in legno e di quello in bottiglia per l'affinamento, prima della commercializzazione, che testimonia chiaramente la sana ambizione della giovane azienda di Nicola D'Occhio.

A incidere, più che il lungo tempo trascorso nelle barriques, anche qui - seppure in misura minore, a mio avviso - il rovere americano; l'impostazione è, però, completamente diversa l'impostazione rispetto alla riserva di aglianico di cui ho scritto, sempre su queste paginette, qualche giorno fa.

"36+6" 2005, la riserva di aglianico del taburno di Torre Varano
C'è di buono che l'aglianico si esprime con buona tipicità; è evidente quel suo carattere austero, già anticipato dalla puntuale rispondenza tra il colore scuro del vino e i profumi dominanti di frutta cupa e spezie forti, avvolti da un anelito polveroso che non toglie, anzi aggiunge fascino.

Servirlo correttamente è quantomai necessario affinché i residui in bottiglia, derivanti dalla non filtrazione, non penalizzino l'aspetto puramente visivo. Gusto deciso, con la vigorosa aggressività del tannino che chiude amarognolo; tanto esuberante da non permettere al sorso di concedersi in pieno e riducendone così, pur  potendo contare su un cospicuo apporto di freschezza e su una vibrante punta sapida, le attuali potenzialità di beva.

venerdì 14 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: U’ Barone 2007 Aglianico del Taburno Riserva, Torre A Oriente

A dispetto del nome "maschile" - u' Barone, cioè il Barone - il naso ha una "femminile" eleganza che rivela una certa affinità caratteriale con Patrizia Iannella, agronoma e anima dell'azienda nonché Presidente dell'associazione dei produttori di aglianico del taburno.

Intessuto di note di frutta rossa e di spezie dolci, a tratti è un po' piacione; ma sempre fine, comunque. A volergli fare un appunto, ecco, le note conferite dal legno mascherano un po' la tipicità; colpa anche, a mio avviso, del rovere americano in cui matura il 30% della massa (per il quale confesso - in genere - di non nutrire grandissima considerazione).

U'Barone 2007, la riserva di aglianico del taburno di Torre a Oriente
Di assolutamente positivo c'è che il sorso è coerente con il bouquet dei profumi, puntuale nella stessa impronta dolciastra che avvolge il naso; il tannino, nemmeno troppo pungente, è ravvivato dalla freschezza e da una buona sapidità.

Nonostante un'idea generale di discreto equilibrio (tenuto conto della giovane età), la sensazione è quella di un vino non ancora compiuto, in cui le classiche note vanigliate finiscono per sovrastare il tutto. Abbisogna, a maggior ragione, di tempo.

mercoledì 12 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: Terra di Rivolta 2007 Aglianico del Taburno Riserva, Fattoria La Rivolta

A non averne conosciuto la provenienza, avrei forse pensato a un rosso borgognone (con le dovute proporzioni, certainement); e ciò anche se ho sempre odiato i paragoni e le frasi del tipo l'aglianico è il Barolo del Sud o cose del genere. Probabilmente per quel suo essere scostumato (cit.) al naso che gli dona ulteriore fascino e imprevedibilità.

Un'eleganza che, però, non diventa mai piatta compostezza; ché, anzi, il vino - parlo della trama olfattiva e gustativa insieme - ha una certa dinamicità. Profuma di frutta rossa scura, sa di funghi e di terriccio, ha tratti di selvatico e animale. Di tartufo, ecco. Non fosse per quella leggera riduzione al naso, che pur scompare pian pianino con il rimanere nel calice, sarebbe ancor più interessante.

Terra di Rivolta 2007, la riserva di aglianico del taburno di Fattoria La Rivolta

Il problema è che gli andrebbe dato il tempo di aprirsi. Nel calice, dico. Il che è cosa sinceramente molto difficile perché il sorso secco è di quelli che incitano alla beva, riuscendo nell'impresa di unire la vigoria all'agilità, in un quadro generale di ottima coerenza gusto-olfattiva. Non perde mai piacevolezza, con il tannino  - acceso, sì - ben imbrigliato da sapidità e acidità, quest'ultime a dare ulteriore snellezza al palato.

Non dimostra affatto i 14 gradi e mezzo d'alcol, pur essendo un vino non altrimenti definibile se non come robusto; soprattutto nel finale che è ricco e appagante, giocato sui toni della frutta scura e del sottobosco, con un sottile velo di balsamicità. Un anno e mezzo di affinamento in barriques nuove e più o meno lo stesso tempo in bottiglia, prima della commercializzazione. Appena settemila bottiglie.

lunedì 10 gennaio 2011

Etichette da Write Wine: Lysios 2007 Aglianico del Taburno Riserva, Cantine Tora

Senza dubbio è stato l'assaggio più sorprendente della cena-degustazione con cui si è conclusa Write Wine, la manifestazione voluta dall'Associazione Aglianico del Taburno di cui ho già parlato su queste paginette e sul sito di Luciano Pignataro.

E non perché Francesco e Giampiero Rillo siano nuovi a vini di pregevole fattura e tutti di spiccato carattere (penso, tanto per fare un nome, alla vendemmia tardiva di falanghina Kissòs di cui parlò - e bene - il buon Pasquale Carlo) e territorialità; piuttosto perché Lysios - il significato letterale del termine greco è "bevanda che rende amici e che entra nell’anima" - è una riserva prodotta per il primo anno in assoluto dalla giovane azienda di Torrecuso, che rappresenta bene - se vogliamo - il paradigma dell'aglianico del taburno.

Lysios 2007, la Riserva di aglianico del taburno di Cantine Tora
Un vino, cioè, possente per via dei 14 gradi e mezzo d'alcol, ancora lontano dall'equilibrio che verrà soltanto con gli anni di affinamento in vetro. Un aglianico scontroso, sulle prime, che a parte la leggera confusione iniziale del bouquet dei profumi diventa via via più definito, regalando profumi eleganti di prugna e pepe nero, un'affascinante nota di torrefazione, poi ancora le spezie più dolci e un afflato balsamico. Convince un po' meno - ma, torno a ripetermi, è soltanto questione di tempo - in bocca, dove il sorso è pieno e chiude sul cacao amaro dopo una performance di bella intensità e durata. Con la persistenza che è solo leggermente "sporcata" dall'imponente nota alcolica e dalla fitta trama di tannini che perderanno esuberanza con gli anni, grazie anche all'ottimo corredo di freschezza e sapidità.

Da uve raccolte alla fine della prima decade di novembre, leggermente surmature, sottoposte a fermentazione in acciaio e poi affinate dapprima un anno in barriques nuove di media tostatura e poi un altro anno in acciaio, prima dell'imbottigliamento senza filtrazioni stressanti. Soltanto tremila bottiglie.

venerdì 7 gennaio 2011

Greco di Tufo 2009, Cantine dell'Angelo. E di come, a volte, si possa cambiare idea

Due piccioni con una fava, si dice. O due cantine con un enologo, potrei dire io. La puntatina in quel di Tufo non era in programma, infatti; ma non potevo certo farmi sfuggire l'occasione. E così quando Luigi Sarno mi ha chiesto fammi compagnia, dopo uno spezzone di pomeriggio in visita da lui a Cantina del Barone (della visita con annessa verticale ho parlato di là, sul sito di Luciano Pignataro), ho detto sì, vengo senza pensarci e mi sono infilato in auto. E il paio d'ore che avevo pensato di dedicare a quella grande passione che è per me il vino sono diventate, come spesso accade, un intero pomeriggio.

Dopotutto, da Cesinali a Tufo ci si impiega più o meno una mezzoretta. E poi il desiderio e la curiosità di riassaggiare il greco di tufo prodotto da Angelo Muto erano tali che mi sono detto ma sì, dai; soprattutto perché il millesimo 2008, assaggiato tanto velocemente quanto superficialmente, non l'avevo capito. E quale migliore occasione, dunque, di riprovarci direttamente in azienda, a tu per tu con il produttore.

Ho davvero apprezzato l'entusiasmo con cui mi ha accolto Angelo Muto, giovane grande e grosso, che pur stanco per la vendemmia appena conclusa e nonostante la giornata ormai volgesse al termine, mi ha accompagnato in giro per tutti i vigneti: Campanaro, Serrone e Castellone; soltanto da lontano, Torre Favalle, il vigneto impiantato due anni fa che diventerà forse il cru dell'azienda. Tutti appezzamenti sparsi per il territorio del comune di Tufo e che fanno appena 5 ettari: «l'estrema frammentazione della proprietà è uno dei grossi problemi per la nostra viticoltura». Con l'occasione, passando in località San Paolo, ho anche salutato Gabriella Ferrara e suo marito Sergio Ambrosino, anime dell'azienda Benito Ferrara, dove ero stato in visita qualche tempo fa (avevo parlato qui del loro "Vigna Cicogna" 2008), a dimostrazione della maturità di Angelo, consapevole come non molti altri che per uscire fuori dall'anonimato o quasi in cui versa, commercialmente, il greco di tufo bisogna promuovere il territorio innanzitutto e non, come "campanilisticamente" spesso accade, il singolo. 

Greco di Tufo 2009, Cantine dell'Angelo
Nonostante l'azienda abbia debuttato sul mercato soltanto nel 2006, Angelo rappresenta la terza generazione di viticoltori. La produzione attuale è una sciocchezza, occhio e croce quindicimila bottiglie, ottenute esclusivamente con le uve provenienti dai vigneti di proprietà, alcuni dei quali si trovano proprio sopra alle vecchie miniere di zolfo (di qui la spiccata mineralità del vino nel bicchiere). Solo acciaio per la vinificazione.

Il millesimo 2009 mi ha fulminato. D'un paglierino di tenue intensità e di bella luminosità che nel calice scorre nemmeno troppo facilmente, a dare i primi indizi di una certa struttura. La mineralità che si percepisce già al naso viene fuori soprattutto in bocca e si concede per quella che è veramente, cioè marchio a fuoco del terroir e delle sue vigne. Ecco, magari non intensissimo l'impatto al naso ma per il resto ha tutto quel che occorre: ritmo ed eleganza, in primis. Profuma di scorzette d'agrumi, di ribes e di lampone; ma la cosa che più mi piace è l'allungo salino sul finale, in pratica una lama che taglia in due il palato, gli da' sollievo e poi lo tormenta, fino al finale appena terroso e di frutta sulla scia di quella spiccata sapidità.

Un greco di tufo pulito che dirà ancor più la sua di qui a qualche anno. Un vino che è quanto di meglio si possa chiedere a tavola. Mi ha fatto ricredere; e d'altronde solo gli stupidi non cambiano mai idea.

Ah, dimenticavo. Menzione speciale per il bel sito internet: ben fatto, user-friendly e, udite udite, anche aggiornato. Che non è affatto cosa scontata, ahimè, dalle mie parti.

mercoledì 5 gennaio 2011

Sassicaia 2003: e dov'è il millesimo difficile?

Fare di tutta l'erba un fascio è pericolo sempre dietro l'angolo, specie quando ci si imbatte in bottiglie di annate cosiddette sfortunate come è stata, un po' in tutto lo Stivale, la 2003. Annata calda - troppo, forse - che spesso e volentieri ha partorito vini carichi e precocemente maturi, con acidità e freschezza anche di molto sotto l'asticella della normalità. I rossi, in particolare, si sono visti gambizzare in termini di potenzialità evolutive e aspirazioni d'invecchiamento. Apro e chiudo parentesi: menomale che la moda dei vini iperconcentrati e marmellatosi ha fatto capolino (o quasi) già da un po'!, chissà quali sensazioni ci avrebbero regalato alcuni vinoni figli di un millesimo così...

Se da un lato il Sassicaia che ho bevuto io nulla aveva del vino "seduto", dall'altro c'era il rischio, in questo caso maggiore, che il costo spropositato della bottiglia diventasse il pretesto per abbandonarsi a critiche superficiali e ingenerose; soprattutto nel particolare momento che stiamo vivendo, in cui certi vitigni - vedi cabernet franc cabernet sauvignon (giusto per citare quelli che poi vanno a comporre l'uvaggio del taglio tosco-bordolese di Tenuta San Guido) - sono demonizzati, talvolta a prescindere. E sì che sono anch'io tra quelli che non credono alla storiella del vitigno internazionale migliorativo (vi dice niente Cirò!?); ma è innegabile che certi vini, anche italiani, prodotti con vitigni alloctoni sono di assoluto livello qualitativo (come non ricordare, per esempio, il cabernet sauvignon di Eugenio Rosi? Ne ho parlato qui).

Sassicaia 2003, Tenuta San Guido
Pur non essendo uno di quei vini per cui stravedo, forse anche perché soltanto una volta, prima di questa, avevo avuto modo di tirargli il collo (in un'insolita sfida con l'Ornellaia dello stesso millesimo 1998 che ho raccontato qui), non posso certo non riconoscere sia una boccia che valga la pena assaggiare almeno una volta nella propria vita. Vino dal colore rosso intenso con tratti di una certa lucentezza, tutto fuorché "cotto". Anzi, perfettamente integro: sia nell'aspetto, appunto, che nelle sensazioni olfattive e gustative.

In pratica, l'eccezione - nemmeno tanto emblematica, a dirla tutta - che conferma la regola: e, cioè, che nelle annate "sfortunate", chi ha seminato bene in vigna ha potuto raccogliere un prodotto di livello, magari in minore quantità e con più sacrificio. Prova ne sono i profumi di bella complessità che ricordano l'amarena, l'anice, la grafite e il sottobosco, finanche qualche tocco di mineralità che ritorna anche al palato, regalando un sorso intenso e definito, rotondo ma non piatto grazie a una buona freschezza di fondo che gli permette di conservare verve e agilità. Tannino setoso, ben levigato; con un finale, magari non particolarmente lunghissimo, in cui si intrecciano la china e il terriccio, via via più intensi man mano che scompare la frutta rossa.

Dedicato a chi snobba i vini del 2003 solo perché hanno quella targa. Con un grazie grosso così, dopo che l'ho bevuta a Natale, perché è stato soprattutto grazie a loro che l'ho comprata nel 2005, in un'enoteca on line di tutto rispetto, per "soli" 85 eurini. Un affare, no!?

lunedì 3 gennaio 2011

Barolo Chinato: Augusto Cappellano e una storia lunga più di cent'anni

Avevo le idee chiare quando l'ho comprato un mese e mezzo fa a Terre di Vite (leggi qui). Direttamente dalle mani del simpaticissimo Augusto, figlio del compianto Baldo Cappellano e oggi impegnato a tutto tondo nella conduzione della storica azienda di famiglia, in quel di Serralunga d'Alba.

Sapevo già quando, come e perché l'avrei bevuto. In pratica, di lì in poi è stato tutto un countdown fino allo scoccare dell'ora ics: il pranzo di Natale. O meglio, a fine pasto, quando il panettone era già bello che scomparso dalla tavola e si era materializzato il solito vassoietto con i dolci della tradizione campana: il divinamore, il roccocò e poi lui, quel dolce semplice e spettacolare che è il mustacciuolo ricoperto di cioccolato fondente.

Il Barolo Chinato di Cappellano
Un vino che ha una storia lunga più d'un secolo, da quando sul finire del 1800 il farmacista Giuseppe Cappellano mise a punto la ricetta del mitico elisir di Langa; e due anime, quella dolce e quella amara, che convivono, si intrecciano, si scontrano e si completano nel bicchiere dove - di là dall'affascinante colore granato di un barolo di vecchia data, appena appena forse più lucente - promanano e si alternano profumi intensi di spezie: la vaniglia, il rabarbaro, la china e i chiodi di garofano, lo zafferano e l'origano.

Il naso è stratosferico; ma è in bocca che le cose si fanno ancor più stupefacenti se si pensa che il sorso - che pur deve fare i conti coi diciotto e passa gradi d'alcol - non perde mai leggiadria e non è mai pesante, ecco. Eppoi è elegantissimo, d'una finezza che è compostezza, pulizia e austerità. Che sono poi i tratti essenziali del lungo ricordo che si stampa sul palato, con la radice di liquirizia che si affaccia man mano che svaniscono le spezie.

Insomma, un must.